Il Blog di Mangiare Bene

Eventi Golosi

Seconda Parte

Proseguono, in rapide carrellate, gli interventi dei vari chef  con le loro ricette, quelle più facilmente realizzabili nelle cucine di casa. Chi volesse accedere a tutti i contenuti di Identità Golose on the road, può iscriversi direttamente (costa 49 euro) ai laboratori dei più noti fra protagonisti della cucina italiana. Ne vale proprio la pena!

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photo credit: Identità Golose


La bontà dell' aria dei colli
L’aria dei colli friulani. Antonia Klugmann, cuoco dell’anno 2020 per Identità Golose, prima di mettersi ai fornelli, ha spiegato che deve all’atmosfera di Vencò, dove ha sede il suo ristorante L’Argine a Vencò con tanto d’orto e frutteto di contorno, se la sua cucina può esprimersi al meglio, se la sua creatività è continuamente sollecitata da tutto ciò che ha intorno. Infatti con la maturazione contemporanea di alcune tipologie di frutta e verdura che rende impossibile usarle “tutto d'un colpo” e nell’intento di nonvoler sprecare nulla, ha imparato a guardare l’ingrediente con un penetrante occhio da studiosa. Per esempio: “Il pomodoro è sempre pomodoro” … allora come si fa ad essere creativi di anno in anno con un ingrediente così comune e  quanto mai usato?  E’ evidente che chi deve muoversi è il cuoco…è la sua mente, la sua emozione che modifica  il prodotto. Ed è sempre una bella sfida”!
Nel primo piatto proposto per questa occasione Antonia ha voluto evocare e riportare in evidenza la cucina delle nonne che facevano cuocere lentamente le zuppe sulla stufa o nel forno a legna. La sfida è stata quella di fare la zuppa con il cavolo nero che richiede solo 4 minuti di cottura. Così, dopo averlo stufato brevemente con la sua propria umidità, lo ha frullato con l’olio extravergine di oliva ottenendo un puré in purezza dal gusto intenso.Poi ha cotto le foglie al vapore, le ha stese su una placca, le ha insaporite con un pizzico di sale e del concentrato di pomodoro e su queste basi ha distribuito porzioni del purè preparato. Arrotolate tutte le foglie a fagottino, li ha completati con un filo d’olio e un pizzico di sale, quindi li ha cotti in forno a 210° per 3 minuti. Ritirateli ha ricoperto i fagottini con la glassa di pomodoro e li ha serviti con accanto una ciabatta di farina di polenta molto “crostolosa” (con cui poter fare la scarpetta) e una salsa di finitura realizzata con un mix di aceto di pomodoro, acqua di pomodoro, concentrato di pomodoro e crema di cavolo nero. Il risultato? Un concentrato assoluto di sapori che conferiscono al piatto il giusto equilibrio fra acidità, dolcezza e gusto tradizionale.
Il secondo piatto, apparentemente complesso per chi non s’intenda di cucina lo riassumiamo necessariamente per sommi capi. Ha una base di pasta lunga cotta in acqua solo per 3 minuti e poi lasciata marinare in un brodo d’arance (seguono fasi di essiccatura, di sottovuoto e di riposo). Al momento di servirla, la pasta si passa in padella per 40 secondi con il brodo di succo d’arancia (il liquido deve evaporare) e s’impiatta a nido con alla sommità un tuorlo d’uovo (in precedenza spennellato d’olio e cotto avvolto in pellicola nell’ acqua bollente per 2 minuti) in modo che coli lentamente liquido sulla pasta. Quindi il piatto si completa con la bottarga di zucca (Antonia usa la zucca Hokkaido marinata sottovuoto per 3 ore in acqua, zucchero di canna e sale e poi essiccata in modo che rimanga comunque morbida) e, infine, acetosella e melissa a ricordare la parte agrumata della ricetta. Quale esperienza per il palato del commensale! Quanto studio e quanta passione nei sapori di questa chef campione!

Che amore di abbacchio!
Anthony Genovese  nel presentare a Identità on the road  un classico della cucina romana - l’abbacchio con le puntarelle – ha voluto sottolineare  l’essenza del suo stare ai fornelli: far ritrovare nel piatto i veri sapori degli ingredienti che lo compongono. In tal caso, quello della carne e del vegetale protagonisti assoluti della gustosa ricetta interpretata, rispetto a quella originaria, con moderna intuizione e antica sapienza. Qualità che lo chef  ha affinato in un lungo percorso di formazione all’estero e in Italia con esperienze che lo hanno reso un gran combattente. E, infine, nel 2003, l’approdo a Roma e l’apertura del suo ristorante dal nome curioso: il Pagliaccio. Un Pagliaccio diventato famoso.
E veniamo al piatto che ha preparato per Identità on the road. In una padella calda Anthony lascia scaldare dell’olio, vi adagia il carrè di abbacchio dalla parte del grasso, lo rosola per un paio di minuti, ne continua la cottura a fuoco basso in modo che diventi di un bel dorato. Attenzione, il carrè non va girato se si vuole che la carne rimanga tenera e gustosa. Si procede togliendo il grasso in eccesso, si aggiungono burro, timo, aglio e rosmarino e con un cucchiaio si inizia a irrorare  la carne per colorarne la parte superiore. Quindi trasferisce il recipiente in forno a 110° per 10 minuti, poi spegne il forno, adagia il carrè su una griglia e lo lascia riposare a forno spento. Nel frattempo, prepara nel thermomix  una crema leggera d’uova: 4 tuorli portati a 83° per pastorizzarli con l’aggiunta di una riduzione di vino bianco, aceto al dragoncello e scalogno, più 2 grammi di lievito, sale e pepe alla fine. Dalle puntarelle, golose co-protagoniste di questo piatto, si staccano le punte più belle, mentre dalle foglie (leggermente e piacevolmente amare) frullate con ⅔ olio di semi e ⅓ di evo viene ricavato un profumato olio verde.  Manca però ancora un nesso fra la salsa d’uova e la carne d’agnello. Manca un collante che lo chef risolve creando una gelatina di 3 tipi diversi di tè  (verde,nero ed Earl grey) che servirà a lato del piatto in una tazzina con l’aggiunta di una punta di ricotta e del caviale per ricordare la sapidià dell’acciuga della ricetta originaria. Nel piatto di servizio lo chef dispone, nell’ordine, alcune puntarelle velate con il loro olio verde, un mix di spezie tostate, un pizzico di sale e una costoletta d’abbacchio cotto al rosa e velata con la salsa d’uova. Guarnizione finale, una cimetta di brocoletto cotto e un’altra cruda, del lievito essiccato e un giro di sugo d’agnello. Mamma mia, che bel piatto!  Che buon piatto!


Un Sacco bello di risi e risotti
Alto e basso Piemonte in un piatto solo. Infatti Marco Sacco, lo chef proprietario del ristorante Piccolo Lago che si trova a Verbania tra lago, risaie e montagne, per le sue passeggiate non solo di evasione ma anche professionali ha mete quanto mai suggestive. Andando a sud entra direttamente nella zona delle grandiose risaie piemontesi, mentre andando a nord penetra nel faggeto e relativo sottobosco che profuma anche di funghi. In entrambi i casi torna nella sua cucina con la spesa fatta e le ricette che gli sono venute già in mente. Per esempio, quella de “il Fungo” presentata a Identità on the road sposa il riso Carnaroli classico con il fungo porcino.
Ecco come nasce il piatto: lo chef partendo dal classico “riso al salto milanese” e dall’altrettanto classico ”arancino di riso siciliano” li replica in base a un suo concetto di modernità e visibilità che si traduce nella riproduzione di un fungo. Il gambo prende forma grazie a un risotto ai funghi impanato con amido di riso e fritto a 170° poi reimpanato una seconda volta col pane dei celiaci e ancora rifritto fino a ottenere un colore molto simile a quello originario in natura. Le cappelle fresche del fungo invece vengono leggermente incavate per posizionarle sul gambo dopo averle spennellate con una melassa di porcini, mirtilli, cipolla, aceto, ginepro fermentato, clorilla e spezie. A finire, una spuma sifonata di brodo ridotto di fungo. Insomma, precisa Marco Sacco,  “un mix di caldo-freddo, acidità, sapidità, dolcezza…e persino una parte fruttata”. Questo l’indimenticabile ricordo visivo, olfattivo e gustativo di un piatto che vuol essere anche il ricordo sentimentale di una passeggiata nel bosco. Nella natura.

Cristina si è fermata all’Hostaria ? 
Chi può dirlo considerando il suo passato. Cerignola in Puglia dove è nata, San Francisco dove ha perfezionato i suoi studi in legge e svolto nei week end esercizi di cucina nella Higher Grounds, una coffe house, Austin dove si è laureata in Culinary Arts e ha perfezionato questa disciplina “lavorando in particolare sulla concentrazione dei sapori”, attualmente Roma dove Cristina Bowerman si realizza nella sua Glass Hostaria trasteverina, innovativo locale di cucina altrettanto innovativa a dir poco. Questa stellata chef giramondo dai capelli bianchi con grandi ciuffi viola inizia il suo intervento a Identità on the road invitando tutti gli chef del mondo, e  soprattutto quelli italiani, a utilizzare il riso italiano, il più buono in assoluto, e anche varietà diverse: “non solo le due o tre qualità più conosciute”. Lei ha scelto il Riso Artemide, una qualità molto versatile (ma poco utilizzata dagli attuali cuochi) che ha il colore viola o quasi nero del riso Venere e il profumo del Basmati e che  può essere cucinato in modo del tutto diverso rispetto agli altri tipi. Per la sua prima ricetta, un aperitivo, lo fa germogliare in acqua per un paio di giorni evitando che diventi verde. Una volta germogliato, lo stracuoce per mezz'ora, lo mescola con alcuni semi, lo fa essiccare in forno e poi lo frigge ricavando delle chips. Chip che serve con una purea di avocado, fagioli bianchi e ravanelli fermentati alla giapponese che, spiega, “diventano “come sottaceti”. Un aperitivo dal sapore senz’altro molto originale e anche bello da vedere.
Per la seconda ricetta Cristina Bowerman ha usato ancora il suo riso Artemide germogliato ed essiccato, ma in questa occasione ridotto in farina. Con la farina (resa più elastica con l’aggiunta di gomma Guar), forma delle sfoglie, le cuoce per 2 minuti in acqua bollente, le scola e le farcisce con crema e pezzetti di broccolo. Infine le arrotola e le impiatta “in verticale” completandole con  una salsa di aglio nero fermentato, del cavolo romanesco e alcune lamelle di tartufo nero. Davvero un’esperienza fuori dal comune e decisamente controcorrente per i curiosi di cibo. Non per nulla Bowerman definisce la sua cucina “frutto di esperienze, viaggi, incontri, formazione culinaria e studi che non finiranno mai di essere la mia fonte primaria d’ispirazione”.

Torniamo in trattoria
Seggiole di legno impagliate, rustici tavoli di legno, tovaglie a quadretti bianchi e rossi senza sprechi di stoffa, piccoli lumi sospesi con lampade avvitate dondolanti dal soffitto su fumanti scodelle di  sapide minestre. Queste le trattorie di una volta che il tempo piano piano, poi più velocemente ha quasi del tutto cancellato dal panorama della ristorazione più semplice. Ma non sembri improbabile un loro onorevole ritorno.Tanto che Identità on the road  nel suo itinerario stradale di quest’anno si è fermata anche in trattoria con l’intenzione d’iniziare a rendere il suo antico valore al format originario, quello appunto, della cucina della tradizione. Tanto che Diego Rossi, uno dei più attivi rappresentanti di questa  nuova generazione di cuochi, si sta battendo per recuperare il tempo perduto. Infatti dopo una gavetta in diversi ristoranti stellati, stanco di una cucina legata strettamente alla classicità francese, decide nel 2015 di aprire a Milano, con il collega  Pietro Caroli, una trattoria: Trippa. Un nome particolare che in italiano si riferisce alla parte più nobile del quinto quarto, la trippa appunto, la regina delle frattaglie. Un nome che significa anche qualcosa di sostanzioso nel linguaggio comune: “c’è trippa”. E che per il nostro chef significa anche puntare “sulla sostanza e sulla concretezza nel piatto”. Per esempio, la trippa fritta che prepara con il secondo stomaco del vitello, quello a nido d’ape, ideale per tale   preparazione in quanto rimane croccante fuori offrendo all’ interno una inaspettata morbidezza. Una ricetta  inoltre che vuole avvicinare le frattaglie a chi non le gradisce in quanto, da fritta, la trippa ha il gusto, pensate!, del calamaro fritto. Dunque la trippa, stracotta in acqua e poi ben asciugata, s’infarina e si frigge in abbondante olio bollente fino a raggiungere una buona croccantezza. Da calda si sala, si aggiunge rosmarino fresco spezzettato e abbondante pepe nero. Un piatto facilmente replicabile a casa e che, tanto per gradire, Diego abbina a Lisa, una birra lager non filtrata di Birra del Borgo.
Altra ricetta il vitello tonnato, antica preparazione piemontese che Diego reinterpreta “rinfrescandola”, ma senza stravolgere il sapore finale che deve rimanere quello originario. Invece del classico girello si è preferito il fiocco di vitello (spinacino) scottato e cotto a bassa temperatura. Altre componenti, il fondo di vitello (che dà una sferzata di sapore rendendo il piatto ancor più “seducente”), i capperi di Pantelleria sott’olio, la salsa tonnata (maionese, capperi, acciughe e tonnetto alletterato italiano). Accattivante la presentazione: la carne tagliata al momento si dispone sul piatto a forma di fiore e relativi petali poi ricoperti con la salsa tonnata sifonata, tutt’intorno capperi e fondo di vitello. E il consiglio di servire a tavola con birra Re Ale Extra di Birra del Borgo che conferisce freschezza alleggerendo la bocca dall’untuosità della salsa.

Un futuro in trattoria
Un masterclass importante. Un masterclass a quattro mani di due chef che puntano molto sul ritorno delle trattorie, sulla loro evoluzione, sulla loro contemporaneità. I tempi cambiano e per questo tipo di ristorazione potrebbe essere già domani.
Michele Vallotti, oste di campagna
Ventidue anni fa Michele Vallotti  apre La Madia a Brione (Brescia) in una zona dove la tradizione della trattoria è ancora molto sentita. Però la sua trattoria è volutamente diversa dalle altre perché la sua cucina non è più racchiusa nei soliti clichè di ricette. Michele vuole esprimere nuovi concetti che gli permettano di esprimersi ai fornelli con altre idee, ma che pur sempre “si bagnano nel mare della tradizione perché siamo in Italia dove abbiamo una cultura del cibo unica al mondo”. Come dimostra la ricetta presentata a Identità on the road  che parte da un piatto ben noto, il più simbolico della zona bresciana: “la minestra sporca”. Sporca, si fa per dire. Sporca, nel senso di “robusta”: siamo in trattoria! Così, come da tradizione, lo chef inizia soffriggendo la cipolla quindi, nell’ordine, rosola i cuori e i fegatini di pollo e poi bagna il tutto con il brodo anch’esso di pollo. A questo punto, ecco il contemporaneo: Michele “tradisce” il passato aggiungendo alla minestra la verza cotta a 80° in grasso di pollo più due tipi di pomodorini fermentati (verdi e rossi più maturi) per conferire al preparato una punta di acidità e lo cosparge di formaggio (pecorino o grana) per recuperarne la sapidità. Per finire, ecco “nuotare” nella minestra l’agone sott’olio frullato (sarda essiccata del lago d’Iseo, presidio  Slow food) passato in forno a 140° che da cotto perde buona parte del sentore di pesce esprimendo invece un sentore che ricorda quello degli uccellini allo spiedo. A questo piatto, equilibrato fra tradizione e sperimentazione, lo chef abbina la birra Re Ale Extra di Birra del Borgo.    

Diego Rossi, oste di città
La trattoria, secondo il parere di questo chef-proprietario a Milano di Trippa, tornerà ad essere un tipo di ristorazione più consona al cambio di vita che ci aspetta e che, si può dire, in parte già avviato. Diego Rossi ha le idee chiare sia di come debbano essere questi locali, sia sul tipo di cucina che dovrebbero offrire. Primo, devono distinguersi nell'arredamento: per esempio, pavimento di graniglia di cotto, classica credenza e tavoli di legno in modo tale che chi entra capisca subito di trovarsi in una vera trattoria. Secondo: una volta a tavola è molto importante la riconoscibilità di ogni piatto: per esempio, al momento dell'assaggio il cliente deve riconoscere subito ciò che sta mangiando e "non perdersi nell’illusione di un piatto". E, infatti, lo chef ha portato a Identità on the road un "primo” molto riconoscibile della tradizione regionale italiana, i tortelli di zucca mantovana preparati secondo la classica ricetta che vuole i tortelli di pasta all'uovo con il ripieno di zucca, amaretti e mostarda dolce conditi con burro (panna d'affioramento), salvia e lodigiano grattugiato (precursore del grana) che esaltano la golosità del ripieno. Abbinamento ideale è consumarli dissetandosi con una Birra Lisa lager di Birra del Borgo non filtrata realizzata con il grano "senatore Cappelli" e arricchita con scorze di arance per conferirle freschezza. Oltretutto è uno dei piatti-comfort per eccellenza. Da consumare, naturalmente, in una “ritornata” trattoria.

Coppe “Grande Dame” e piatti Grandi donne
Anche in questa prima straordinaria edizione di Identità on the road  non è mancato un incontro con le bollicine, anzi si è trattato di un importante masterclass con Veuve Clicquot che ha dato visibilità ad alcune eccellenti donne-chef italiane che si esprimono in cucina nell’intento di valorizzare il loro territorio rendendone più originali e più significativi i piatti. Di conseguenza, a tavola, la “Grande Dame” anfitrione spumeggiante nel cristallo delle coppe e il superbo terroir della Champagne come provenienza. Di conseguenza anche Identità Champagne 2020 e  l’incontro con Iside di Cesare del ristorante la Parolina a Trevinano (in provincia di Viterbo), un territorio di leccornie che incrocia Lazio, Umbria e Toscana. Dunque, Cappelletti di cinta senese in brodo progressivo e Caviale di lenticchie di Onano i piatti, appunto di forte identità territoriale, proposti dalla chef. Iniziamo con i Cappelletti: l’impasto è fatto solo di tuorli e farina e il ripieno è un composto di carne di maiale di cinta senese. Cotti in acqua, scolati al dente e adagiati in una fondina con un brodo di sola cipolla alla quale è stata mantenuta la buccia a favore di una maggiore intensità del sapore. A tavola il piatto si serve con accanto un piccolo vassoio contenente una “perla di brodo affumicato” (ottenuto con lo stesso impasto dei cappelletti) e un bricchetto di estratto di liquerizia che l’avventore, a suo piacimento, verserà nel piatto. Tradizione? Evoluzione? L’una e l’altra senz’altro. Si tratta infatti di un elegante gioco gastronomico eseguito da Iside con pazienza e conoscenza e meditati sconfinamenti nei sapori delle terre vicine.
Ed ora il caviale di lenticchie di Onano. E’ un piatto molto interessante per la scelta quanto mai retrò dell’ingrediente principale, una varietà antichissima di lenticchie nere del Trasimeno che, nientemeno, arrivavano per la loro squisitezza sino alla corte dei papa; è un piatto originale per l’evoluzione dei sapori: la buccia delle lenticchie è quasi inesistente e dentro, con la cottura, la consistenza diventerà vellutata, fine e cremosa; è seducente quanto mai per il nome di battesimo del piatto. Ed ecco come si prepara: Iside cuoce le lenticchie come un risotto e, grazie al brodo del pesce di lago impiegato, regala ai piccoli legumi sentori di verosomiglianza con il caviale! Scenografica la presentazione a tavola con le lenticchie servite dentro una vera scatola di latta da caviale insieme a due creme particolari: una di scarti di limoni e una di patate. Concludendo, un particolare piatto vegetariano con il sentore delle preziose uova di storione. E, in entrambi i casi, la “Grande DameVeuve Clicquot per premiare ulteriormente il palato.