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Divagazioni sulla Pizza

Uffa, che pizza! E' l'espressione spesso usata per esprimere un senso di noia soprattutto quando si assiste ad uno spettacolo privo di mordente, noioso nei contenuti e di eccessiva durata. Il che farebbe pensare che la nostra pizza, il piatto più diffuso al mondo lo ricordiamo, sia poco digeribile o riveli disarmonici sapori. Più ragionevolmente,“Uffa, che pizza!”, potrebbe derivare dai lunghi tempi di lievitazione che richiede il suo impasto. Tempi che, del resto, giovano ai fini di una perfetta cottura. Suvvia, un po’ di pazienza…


Origine del nome

Vi sono diverse ipotesi, ma la più attendibile vuole che il vocabolo “pizza” derivi dal latino "pinsa" participio passato del verbo “pinsere” che significa pestare, schiacciare. Comunque, la parola "pizza" appare per la prima volta nel testo, “Codex diplomaticus Cajtanus”, stampato nel 997 d.C. a Gaeta e, successivamente, nel 1200, a Napoli. L' altra ipotesi è che  pizza potrebbe anche derivare dall’ arabo “pita”, vocabolo riferito a un tradizionale tipo di focaccia piatta diffusa nel Mediterraneo e nel Medio Oriente.


Mastunicola, la prima pizza
A inventarla furono i Napoletani. Che aggiunsero il lievito all’originario impasto d’acqua, farina  e sale e condirono, prima della cottura, la superficie del disco con un mix di sapori che il calore avrebbe esaltato.  Davvero un’invenzione geniale se paragonata ai comuni sottili impasti d’acqua e farina che, cotti sulla brace o in forni rudimentali, si rendevano più appetibili con olio, sale e, magari, alcune spezie. Nel tardo 1600 l’indice di gradimento della  nuova ”pizza” inizia a registrare favori sempre più  alti.  Fino  a diventare di largo consumo. Fino ad essere battezzata "Mastunicola",  contrazione del nome  Mastro Nicola, il pizzaiolo che l’aveva inventata. Fino ad arricchirsi di ulteriori sapori come formaggio di pecora, basilico e anche acciughe nella versione  al top. Fino alla conquista, grazie al rosso quanto saporito pomodoro, della versione “A pummarola ‘ncoppa. E, come se non bastasse, nel 1800, in sostituzione del formaggio di pecora trionfò la mozzarella. Ma che cosa si può volere di più?


Un piatto da Regina! 
Così, da semplici ingredienti quotidiani, nasce una poesia del gusto, una meraviglia gastronomica che ha reso famosa nel mondo l'arte e la creatività dei pizzaioli napoletani che, nel tempo,  si sbizzarrirono a formulare varianti sul tema come: la pizza alla marinara, condita con olio di oliva, aglio a scaglie, origano e pomodoro; la pizza alla napoletana, con pomodoro, origano e acciughe; la pizza in bianco, con strutto, pepe in quantità, formaggio pecorino con l' aggiunta talvolta di mozzarella.  Ma la più famosa di tutte diventò la pizza Margherita con pomodoro, mozzarella, e basilico. Un omaggio ai colori del nostro tricolore che il pizzaiolo  Raffaele Esposito volle dedicare alla Regina Margherita di Savoia in visita a Napoli nel 1889.
QUI molte ricette di pizza classiche e non.

"A pizza s'adda magnà a libbretto"
A Napoli il culto della pizza è a dir poco religioso e il vero intenditore, ancor oggi, la mangia per strada, piegata in quattro secondo la tradizione che "a pizza s'adda magnà a libbretto". Addirittura, ancora ai nostri giorni, resiste anche la "pizza ogge a otto", che ad Alessandro Dumas fecero credere fosse una pizza vecchia di una settimana, per cui poteva esser venduta a basso prezzo al popolino sempre in bolletta. E, invece, si trattava già allora di una moderna forma di marketing, compra oggi e paghi fra otto giorni, “per stimolare i clienti che, fortemente desiderosi di gustare l'amata pizza, si rimettevano al destino di vincere al lotto e saldare il conto. Perché no...


Il pizzaiolo, 1/2 sacerdote e 1/2 istrione
Guardare un eccellente pizzaiolo (nella foto Valerio Valle)  armeggiare tra il tavolo di preparazione ed il forno a legna è come assistere ad uno spettacolo di danza ritmica interpretata da un mimo di grande bravura. Il nostro compie il rituale dietro al bancone dove sono distribuite le ciotole di basilico, di aglio, di origano, di pomodoro, di mozzarella tagliata a pezzetti, di alici,  di pasta lievitata, di farina più un bricco di metallo dal lungo becco contenente l' olio di oliva. E, ci piace ricordare in questa occasione, la descrizione che ne fece il compianto scrittore di gastronomia partenopea Nello Oliviero: "il pizzaiolo, mezzo sacerdote e mezzo istrione, compiva il rituale sul palcoscenico della pedana, schiaffeggiando e stendendo la pasta con sonori colpi alternati a spruzzi di farina, facendola abilmente roteare, sospesa a mezz'aria, sul piano di marmo, e passandola al volo da una mano all' altra con una destrezza di un giocoliere, la riduceva allo spessore d'obbligo. Indi vi distribuiva rapidamente, con occhio esperto di decoratore quegli ingredienti richiesti dall' avventore, e il pomodoro scucchiaiato con spatola di legno. Infine, impugnando il bricco dall' alto faceva piovere l'olio con movimento a spirale, come ultimo tocco d'arte, come ultima benedizione alla sua creatura pronta a partire per il glorioso destino. Ovviamente a cuocersi nel forno!

Un gustoso aneddoto che..."fila" 
Guglielmo Marconi, durante uno dei suoi soggiorni a Napoli, fu invitato a cena da  cari amici nel ristorante pizzeria D'Angelo,il conosciutissimo locale situato sulla collina del Vomero. Il cuoco proprietario, Alfredo Attolini, si era reso famoso per la pizza c'o segreto, che poi non era altro che una "pizza Margherita" condita con molta più mozzarella del solito. Marconi, poco avezzo a quel piatto, iniziò a tagliarne una piccola porzione che portò alla bocca trascinandosi dietro un lungo filo di mozzarella che non riusciva più a spezzare. Lo tolse dall' impaccio  Monzù Attolini che, con un abile e deciso colpetto di forbici, recise il lungo filo  esclamando: "Eccellenza, Voi invece del telegrafo dovevate inventare la mozzarella senza fili!"