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Grissini

Sgranocchiamo la loro storia.
A cominciare dal nome. Ghersa era quello di una pagnotta piemontese di farina di segale, frumento e orzo, lunga e stretta che si consumava nel 1300 e costava un soldo. Poi nel 1500, in un periodo di sopravvenuta inflazione, il nome declinò in gherssin, piccola pagnotta, perché i fornai a ragion veduta presero a farla più leggera e sottile. Così, quando nel 1679 un medico ordinò a un panettiere di preparargli una sottilissima bacchetta di pasta di pane, fu facile battezzarla ghersin. Da cui grissino. E fu grissino per sempre. E, in un certo senso, si può anche dire che i grissini siano un prezioso lascito dei Savoia a Torino. Perché a definirne con più precisione la ricetta furono gli incessanti dolori di stomaco del piccolo duca Vittorio Amedeo II, erede al trono. Infatti il medico di corte, Teobaldo Pecchio di Lanzo Torinese, diagnosticato che il piccolo soffriva di una patologia che non gli permetteva di digerire la mollica del pane pensò bene di “somministrargli” qualcosa di più friabile e salutare. Chiesta la collaborazione a un bravissimo maestro fornaio del suo paese, tale Antonio Brunero, insieme idearono un super esile bastoncino. In pratica, ricavarono dalla pasta (puro fioretto di farina, due terzi di frumento e un terzo di segale) dei rotolini tirati a mano larghi mezzo pollice e lunghi due spanne la cui cottura prolungata riduceva la quantità d’acqua e scindeva l’amido in due zuccheri più semplici, quindi più digeribili. Insomma, oltre che la medicina giusta per il “duchino” che guarì, erano nati, più o meno, i grissini che sgranocchiamo.

Grissinomanie regali.
La storia narra che quando Vittorio Amedeo II, da adulto, in sella al suo cavallo si trasferiva nella magnifica reggia di Venaria pare che portasse sempre con se un cesto di grissini come personale riserva. Pare inoltre che il suo fantasma vaghi per le stanze della reggia tenendo con una mano la briglia del destriero e con l’altra un grissino incandescente. Forse per non perdersi nel susseguirsi di saloni, scaloni e corridoi?
Pare che Carlo Felice di Savoia nel suo palco al Regio Teatro di Torino durante gli intervalli si rifocillasse sgranocchiando i favoriti grissini. E pare anche che il cuoco a volte gliene fornisse un tipo speciale aggiungendo all’impasto polpa di trota! Grissini di magro? La principessa Maria Felicita di Savoia chiese al pittore di corte la gentilezza di ritrarla con un grissino in mano. Dove sarà finito quel quadro? Napoleone si serviva addirittura di un servizio postale Torino-Parigi-Torino soprattutto per avere alla sua imperiale tavola quelli che egli chiamava “les petits batons de Turen, élegants et savoreux”. Definizione perfetta.

Stirati o tondi?
Oggi i grissini sono divisi ufficialmente in due tipologie: Grissini Stirati e Rubatà lavorati e modellati con tecniche diverse.
grissini stirati sono i grissini torinesi originari ancora tirati a mano uno per uno dai panettieri che amano rispettare la tradizione. Si lavora il pezzetto di pasta dandogli la forma di un sottile cilindretto, quindi prendendolo per le due estremità si solleva dal piano di lavoro e con il progressivo allargamento delle braccia il panettiere gli imprime un movimento vibratorio fino a raggiungere la lunghezza voluta o anche quella massima consentita dall’ampiezza della sua “bracciata”. Facilmente riconoscibili per le dimensioni sono fragranti, leggermente polverosi di farina e anche un po’ stortini dopo la cottura. Quanto ai rubatà, che sono tipici di tutto il Chierese, il nome deriva da una voce dialettale che sta per cadere, rotolare. E, infatti, si ottengono per arrotolamento da compressione manuale sul piano di lavoro. Ciò che differenzia i due tipi è la qualità della farina e la lunghezza. Farina un certo senso più debole per i rubatà lunghi 40 cm come indica il disciplinare e più robusta per gli stirati dovendo consentire la necessaria elasticità all’impasto i cui grissini arrivano ad essere lunghi da 1 metro a 1,20.

L'evoluzione del grissino  
Comunque, stirati o rotolati che siano i grissini si sgranocchiamo sempre volentieri. Quando? In attesa del pasto per ingannare gustosamente il tempo, durante la giornata come rompi-languore, spezzettati nel brodo e spolverizzati di parmigiano quando si vuole andare oltre la semplice minestrina e anche fasciati dal salume preferito per completare un aperitivo e, perché no?, bagnati nel caffellatte quando non sono del tipo condito. Una precisazione, quest’ultima, necessaria. Perché l’evoluzione ha fatto sì che l’industria abbia proposto con successo grissini conditi, speziati, integrali, all’acqua, all’olio, con sale e senza sale, perfino di lunga durata. Quanto al loro valore nutritivo sebbene siano più digeribili rispetto al pane, forniscono però più calorie. Così per restare o diventare magri come un grissino, tutto crosta e niente mollica, occhio ai componenti riportati sulle confezioni e consumarne “qb”. Ovvero quanto basta. Oggi la maggior parte dei grissini è di produzione industriale con macchinari che replicano meccanicamente i movimenti manuali di un tempo. Una soluzione che ha permesso la loro diffusione quasi in tutto il mondo.